(intervista per Occhi Magazine, a cura di Anna Zaccaria)
Giulio Cavalli è giornalista scrittore, attore. Classe 1977 da anni è attivo politicamente. I suoi articoli, le sue storie sono legate all’attualità, alla lotta contro le mafie e proprio per questa sua attività ha vissuto per anni sotto scorta. Dalle sue inchieste tra l’altro partirono le indagini contro le infiltrazioni mafiose di Expo 2015.
Cresciuto a Lodi, ha con Valstagna, piccolo comune della Valbrenta, un legame stretto e speciale visto che i suoi genitori sono originari della valle e le vacanze estive le passava proprio dai nonni.
Sabato 3 agosto ci torna, invitato dalla Pro Loco, per mettere in scena una delle sue opere teatrali più conosciute: “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”. In anteprima lo abbiamo intervistato per conoscerlo un po’ di più.
Un lombardo a Valstagna… che ricordi hai del paesino?
In realtà io mi sento poco lombardo, crescendo con due genitori veneti, come tu ben sai, non puoi che sentirti veneto: i veneti sono veneti in qualsiasi angolo del mondo. A casa si parlava veneto e fra i miei ricordi più belli vi sono quelli legati alle estati quando ci si trovava a Valstagna e Carpanè con tutti i cugini, anche quelli che venivano da Roma. Una parte molto importante di me si sente veneta piuttosto che lombarda.
Come ti è nata la passione per il giornalismo e quando hai deciso che poteva essere il tuo mestiere?
In realtà io nasco teatrante. Ho cominciato a fare questo mestiere molto giovane e ho avuto la fortuna di lavorare con grandi attori come Paolo Rossi, Renato Sarti, Dario Fo. Innegabilmente questo ha dato la svolta alla mia carriera e penso di essere stato una persona molto fortunata. Sono convinto che la vita venga modificata soprattutto dagli incontri che il caso, la fortuna o la determinazione ti portano ad avere: io ho avuto il privilegio di avere dei preziosissimi incontri. Quando in seguito a minacce mafiose per questioni di sicurezza ho dovuto limitare molto i miei spostamenti e non potevo più mostrarmi in teatro, ho cercato e trovato un nuovo modo di comunicare ed ho cominciato così a scrivere articoli. Da teatrante e scrittore a giornalista, il passaggio è stato naturale, legato alla mia necessità di comunicare, perché sono consapevole che la parola funziona in tutte le sue forme. Fondamentalmente penso di fare sempre lo stesso lavoro, ossia raccontare storie in modalità diverse, dal palco al giornalismo. Posso dire di aver fatto il giornalista per legittima difesa.
Sono finito sotto scorta per minacce mafiose in una regione in cui la mafia “non esisteva”, così si pensava e si diceva; era un’anomalia o addirittura un caso di mitomania. E quindi il giornalismo inizialmente l’ho utilizzato per raccontare che ciò che stava accadendo a me, era semplicemente un rivolo di una situazione molto più più ampia. Sai, nel momento in cui la tua vita viene così profondamente modificata e stravolta hai due possibili strade da percorrere: quella di abbandonare quel filone e aspettare che si posi la polvere aspirando a tornare alla normalità, oppure riuscire a ribaltare le minacce ricevute e usarle in modo etico, facendole diventare la molla per raccontare la diffusione del fenomeno.
Quindi adesso ti senti più giornalista, scrittore o attore?
Mi sono sentito giornalista fino a un anno e mezzo fa e oggi è comunque l’attività che mi occupa più tempo nella quotidianità. Per dieci anni avevo smesso di fare teatro, il ritorno in scena è stato quasi per gioco: in poco tempo è stata ricostituita la compagnia e ora ci troviamo in tournée. È un ritorno alle origini che mi fa molto piacere. Quindi non mi definirei né giornalista né attore. Diciamo che continuo a raccontare storie.
Perchè Giulio Cavalli è “scomodo”?
In questo Paese chiunque usi la sua voce o la sua penna per raccontare la complessità è scomodo ed è sempre stato scomodo. Chi ha provato a far uscire ad esempio le mafie dall’alveo della criminalità spiccia, che viene buona per farci certi libri e certi film, diventa scomodo. Sostanzialmente io penso che quello che non mi viene perdonato da parte della criminalità organizzata, al di là degli appalti per Expo che era una questione prettamente economica, è che insisto per creare una chiave di lettura collettiva. Quello che vorrei è che chi viene a vedere i miei spettacoli cominciasse a guardare il proprio paese o la propria città con occhi diversi e cominciasse ad avere voglia di “scassare la minchia” come diceva la persona che voleva farmi fuori riferendosi a quello che facevo io.
Quali sono oggi i temi cui prestare attenzione?
Per quanto riguarda le mafie c’è un lavoro difficilissimo da fare: bisogna inserirle in un dibattito pubblico da cui sono completamente sparite, nel senso che quando si parla di mafia oggi in Italia si parla solo di memoria. Commemorare le vittime di un fenomeno che invece continua ad esistere, anzi è in ottima salute, mi sembra una cosa abbastanza ridicola.
I nostri spettacoli risultano comici al primo impatto e servono proprio a rinfrescare il tema e a far si che se ne parli ancora. Nel 2010-2011 si riempivano le piazze per manifestazioni antimafia. Oggi il movimento antimafia ha perso il suo dovere principale, quello di comunicare che essere antimafiosi è un prerequisito, non è un requisito, è un prerequisito che riguarda gli attori teatrali, i politici, i panettieri, i farmacisti, le badanti, gli autisti di pullman, tutti.
Parliamo dello spettacolo che presenterai il 3 agosto, nel 1993 avevi solo 16 anni come ti è nata l’idea di fare uno spettacolo dedicato a Falcone e Borsellino?
Perché se c’è una cosa che non sopporto è questa sorta di favoreggiamento culturale alla mafia che in Italia ritroviamo in certe produzioni cinematografiche, in certe produzioni letterarie e che ci presentano i cattivi quali Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro come menti sopraffine, quando basterebbe leggere gli atti giudiziari per comprendere che invece siamo di fronte a personaggi che non avrebbero nessuna credibilità, che sarebbero presi in giro al bar di Valstagna da tutti durante l’aperitivo. Siccome io vengo dalla Commedia dell’arte, faccio mio il mestiere del giullare e uso la risata per smontare la prepotenza.
Andiamo in giro per piazze, teatri e scuole e raccontiamo chi erano i boss e lo facciamo partendo dagli stessi atti giudiziari. Mostriamo il loro essere “nulla”, ne sbricioliamo l’onore e mostriamo che è assurdo che dal 1992 ad oggi siano state solo queste persone a tenere sotto scacco la politica, l’economia e la socialità di questo Paese
A me sembra però che una sorta di genialità del male ci sia…
Tutta la genialità sull’utilizzo delle falle di legge o dal punto di vista economico di gestione economica viene dai professionisti.
Paolo Borsellino diceva di temere più di tutto la normalizzazione della mafia e che ciò sarebbe stato il vero crinale pericoloso. E io penso che se oggi quando c’è un’operazione antimafia, leggendo i giornali, non riusciamo a capire quali siano i professionisti come commercialisti o direttori di banche e quali siano i boss, significa che la normalizzazione è perfettamente riuscita … Questo fa molta paura.
Secondo te adesso cosa si può fare?
Dobbiamo far tornare di moda l’antimafia al posto della mafia.
E poi dobbiamo prestare attenzione al fatto che oggi la criminalità organizzata, a differenza di una volta, non usa più professionisti ma se li crea in casa: figli, nipoti degli uomini di mafia sono avvocati internazionali, sono commercialisti con studi di prestigio e questo fa sì che nel lavoro ci troveremo, come concorrenti nei nostri settori, persone che vinceranno sempre non perché avranno più talento, non perché avranno usato più impegno, ma semplicemente perché non rispettano le regole. Questa è una grande emergenza.
Che consiglio vorresti dare ai ragazzi di 18/20 anni?
Pulitzer, il giornalista diceva che “la curiosità è il lubrificante necessario al buon funzionamento dei meccanismi della democrazia”. Peppino Impastato era un po più volgare di Pulitzer, però aveva la stessa intelligenza affilata e quando gli chiedevano che cosa bisognasse fare per sconfiggere in quel caso il boss Gaetano Badalamenti, lui diceva “scassare la minchia”… E se ci pensiamo è esattamente la frase di Pulitzer.
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